di Paolo Di Stefano
In questa nuova puntata d’un giornale alla Eluard, com’ebbe ad esprimersi Giovanni Raboni parlando della scrittura di Carlo Villa, gli intenti e i contenuti appaiono fin troppo chiari ad apertura di pagina, e sulla scrittura responsabile e l’editoria che difficilmente l’affianca, nel libro valga la citazione di Sciascia: amarissima, quanto calzante parlando di Villa, che più resta attivo nell’essere fedele a se stesso, più dalla critica, ancorché militante, inspiegabilmente viene abbandonato e precluso ad almeno due generazioni, oramai: “Preferisco perdere i lettori che ingannarli”, recita infatti l’esergo di questa sua “Keatoniana”.
La scrittura di Carlo Villa, qui più che mai, si rivela esplosione verbale sull’attualità che ci avvilisce, instancabile nell’analizzarne disperatamente i tessuti con impietosa padronanza istologica; fiduciosa fino al delirio che una simile intransigenza della parola valga ad essenziale valvola espurgativa nel riscattare l’individuo dai troppi assedi debilitanti: purché venga letta. Indicando altrimenti qualcosa anche peggiore, quest’ostracismo a dir poco bizzarro, che perdura da troppo tempo, e in modo così serrato da essere sospetto, da quando dalle redazioni e dai repertori critici sono scomparsi i Calvino, Milano, Giuliani, Garboli e la Corti: solo a citarne alcuni fra quanti Villa invece l’apprezzarono, consigliandolo a lettori che ancora oggi, più che mai, avrebbero bisogno di avvicinarsi a una scrittura d’impareggiabile fiducia nella poesia: a dirla col risvolto di Vittorini all’esordio di Carlo Villa all’Einaudi.
Conscio di ciò, l’autore di “Keatoniana” continua il suo solitario gioco al massacro, sapendosi irrimediabilmente senza speranza nell’aggiornarlo impenitente; in questi suoi ultimi sprazzi ottuagenari, offeso dalla concezione “imperialista” delle vendite e delle classifiche, circa l’intelligenza umana che gravita nelle banlieu della letteratura: ottimista com’è nel suo procedere senza cedimenti in senso contrario: avvalendosi per questo del “visus” d’altrettanta imperturbabilità d’un Buster Keaton.
Per Villa la letteratura è sempre stata l’evidente dimostrazione che la sola vita all’uomo non può bastare; e la configurazione delle parole gli è sempre balenata sotto gli occhi in un lusso di serici tessuti dalle più vivaci sfumature, che affollano questo, quanto i numerosi altri suoi titoli: forse proprio per tanta loro scomodità lasciati derelitti senza alcuno scrupolo. Villa nel suo laboratorio, privo com’è di forza contrattuale e d’ogni presidio di scambio, è pago solo di quanto Michel Butor, nell’accoglierlo alla Gallimard, sentenziò: “La sua scrittura è armonica, nessuna pagina è inutile”.